mercoledì 11 settembre 2013

Via della Stazione



La strada era conosciuta da tutti come “via della Stazione” e su ciò poteva pure aver influito la targa marmorea posta all’inizio della stessa, indicante per l’appunto quel nome. Via della Stazione era proprio una via strana, che la diceva lunga sull’indole e le peculiarità degli abitanti del luogo. Partiva in sordina dal fondo valle e si faceva largo, zigzagando, tra case squadrate e giardinetti recintati e, per i primi cinquecento metri, avresti potuto anche dire di passeggiare in una comune e graziosa stradicciola di periferia. Invece, passate la casa degli Armerini e quella, dirimpetto, pozzo-dotata, dei Graziotti (in lite da generazioni per il pozzo e diverse dicerie sulle rispettive donne di casa), prendeva slancio e impennava decisa, con pendenze talvolta imbarazzanti, dritta dritta , quasi in verticale alla volta del borgo superiore. E, quasi senza accennare curva o tornantello, a mano a mano perdeva la caratteristica di strada fino a prendere la configurazione di viottolo di campagna, mentre attraversava campi per lo più incolti, rallegrati da rare case coloniche trasandate e secolari e altre trasformate in fredde villette con piscina vuota annessa. Se via della Stazione avesse avuto un unico padre, egli non avrebbe certo goduto fama di uomo particolarmente fantasioso, sia in qualità di ingegnere che di responsabile della toponomastica comunale. Difatti non ignoro di far torto alla vostra intelligenza nell’esplicitarvi che la strada conduceva dal borgo abbarbicato sulla collina fino alla stazione ferroviaria che giaceva nella sottostante vallata.  Anzi, a ben vedere, conduceva alla ex stazione ferroviaria, giacché era stata dismessa da quasi un lustro e la nuova stazione, più al passo coi tempi, sorgeva quasi due chilometri più a valle ed era più accogliente, spaziosa e dotata addirittura di un piccolo bar riservato ai pensionati e di distributore automatico di preservativi (verosimilmente usati).

La vecchia stazione era rimasta, così, abbandonata e solitaria, coi marciapiedi invasi dalle erbacce, con i vetri delle finestre rotti, le pareti scrostate, i vecchi lampioni spenti e Michelìn Gigione, che la vide per la prima volta al principiare di quell’autunno, coi suoi occhi bui e venati, quella bocca squadrata e chiusa da pesanti catenacci, pensò che fosse sintesi ed emblema di ogni cosa che conducesse lacrime, di ogni pensiero triste ed ingombrante, di tutto ciò che facesse male al cuore, della malattia del mondo.
Segue elenco non esaustivo delle cose che facevano male al cuore secondo Michelìn Gigione: la morte, lo scorrere del tempo, l’estate quando sta per finire, i ricordi, la bellezza disarmante,  il confronto con la propria arida mediocrità, la coscienza della perdita, il sentire di non sentire, la noia, il colesterolo.
Così Michelìn Gigione ripensò alla propria famiglia: i genitori ormai anziani e rassegnati, nella buia casa di città, i suoi cinque fratelli sparsi qua e là per il mondo a rincorrere inutili sogni, il gatto Tobia, compagno inseparabile dei giorni della sua fanciullezza, ormai quasi immobile sul suo giaciglio e prossimo alla fine della sua settima vita…e improvvisamente capì che irrimediabilmente niente sarebbe più stato come prima. E guardando la vecchia stazione, solitaria e malinconica, pensò che solo quella sarebbe potuta essere la sua nuova casa, con quegli occhi tristi, lei che era simbolo ed emblema di tutto ciò che conduceva lacrime.
Con tali pesanti pensieri conficcati nella mente, si incamminò lungo la via della Stazione e, superata la casa pozzo-carente degli Armerini, tra il vociare confuso di  ancestrali litigi, iniziò ad arrancare alla volta del borgo superiore. Ben prima di metà salita aveva già scordato tutto e ne approfittò per evacuare.