martedì 29 gennaio 2013

Kronemberg

In concomitanza con la Giornata Mondiale per i Diritti dei Pittori del Ruanda, del Burkina Faso e della Penisola Scandinava, che si celebra oggi, vorrei riproporre il mio tributo (apparso su ilmondodialbolo il 24 ottobre 2006) ad un artista ancor poco conosciuto ma non per questo meno "grande": Julius Kronemberg.

L'Inquietudine
J. Kronemberg (periodo ocra)


Sorpreso dal totale disinteresse col quale, all'epoca, i lettori salutarono il mio coraggioso tributo, tre giorni più tardi pubblicai una doverosa precisazione della quale desidero darvi contezza. Tutto ciò per esclusivo amore dell'arte e anche un po' per secchezza delle fauci.

Su Kronemberg (27 ottobre 2006)
Dal numero spropositato di commenti lasciati nel post precedente, arguisco non senza un certo disappunto che il mio pubblico non è interessato all’arte o, perlomeno, non all’artista Kronemberg in quanto tale. Ma forse (ed è quello che voglio sperare) non è per Kronemberg stesso, peraltro pittore dal talento indiscutibile, che storcete il naso, bensì per il suo "periodo ocra" in particolare. In effetti in confronto alle più note e commerciali opere del "periodo marrone scuro" e "grigio topo", quelle del "periodo ocra" risultano essere maggiormente ermetiche e difficilmente comprensibili, almeno ad una prima analisi. Ricordiamo tra l’altro che queste opere altro non sono se non sofferte espressioni dell’onirico. Infatti è risaputo che Kronemberg non faceva sogni a colori ma soltanto in nero ed ocra (però quando era desto pensava a colori, come tutti). Il "periodo ocra" rappresenta un momento molto tormentato per la vita dell’artista, caratterizzato da una profonda sfiducia nella giustizia umana e in una legislazione troppo fiscale e bigotta. Dopo il processo che lo vide condannare per violenza sessuale plurima e continuata e quello che lo vide imputato (e naturalmente condannato) per omicidio volontario, aggravato dai futili motivi, Kronemberg si rese amaramente conto che l’uomo è incapace di perdonare. Questa scoperta, unitamente alla privazione della libertà, lo porta a rifugiarsi nei mondi onirici di cui sopra, che rappresenta con precisione e gusto per il particolare.

Per ulteriori approfondimenti sulla vita e le opere di Kronemberg si consiglia il volume "Julius Kronemberg, da artista maledetto a carcerato modello", a cura di P. Baudo ed edito da Mondadori. 

E meditate, gente: la gioia che da il perdono è seconda solo a quella che da il tiramisù


giovedì 17 gennaio 2013

Superficialità



Del giorno che sono nato mi ricordo tutto alla perfezione, come fosse…un po’ di tempo fa o poco più. D’altra parte nella propria vita non si nasce tutti i giorni; al massimo due o tre in un’intera esistenza, per cui certe cose rimangono ben impresse nella mente. Rammento ad esempio che me ne stavo comodo al calduccio, quando mi ritrovai all’improvviso pigiato in un angusto pertugio ed ebbi il timore, per un attimo, di rimanervi per sempre; poi ad un tratto vidi la luce ed avvertii un senso di bruciore doloroso in gola e nel petto. Quindi fui afferrato da mani giganti e ricordo visi brutti e occhi bovini che mi scrutavano e mi parlavano come fossi deficiente, tanto che in un istante compresi la miseria umana. Fu allora che cominciai a piangere.

Poi mi misero in una specie di letto o gabbia, condividendo la sorte con un reggimento di altri esserini maldisposti e raggrinziti di cui ignoravo le generalità ed ai quali non diedi confidenza anche perché nel frattempo intuii l’esistenza dell’idea di fame ma non potendo provvedervi me ne feci una ragione e contemporaneamente percepii di essere dotato della capacità di ragionare (in sistema binario). Così iniziai a pensare. Da quel momento non ricordo più niente. 

Però deve essere stato un niente lungo se i miei ricordi successivi principiano sull’età dei tre anni circa, data cui attribuisco per logica il termine dell’esperienza del pensiero. Da quel momento fu tutto un gioco di equilibrismi per planare soave sulla superficie dell’onda perfetta. 

Non so cosa di preciso…ma qualcosa mi spaventò. Mi spaventò o mi angosciò. Oppure mi deluse. O entrambi i tre. Davvero qualcosa nei meccanismi della vita (o del suo contrario) deve avermi spaventato, perché fu da quel momento che decisi (o fui costretto) a muovermi con quella lucida superficialità che solo chi vive come la brezza marina che solletica la pelle in una notte estiva sa comprendere e apprezzare. 

Non so cosa di preciso…ma qualcosa mi suggerì che controproducente assai sarebbe stato affaticare la mente, sforzarla e spremerla per scavare la verità e raggiungere l’essenza cruda delle cose. Perché l’unico vero risultato sarebbe stato solo l’emergere di un grande dolore, senz’altri vantaggi. E allora meglio costruirsi un mondo poggiato su qualche piccola e deliziosa bugia, dalla quale liberare il volo dell’immaginazione. 

Per questo vi chiedo di non giudicarmi troppo male se sfioro la superficie delle cose ma non vi entro, se mi avvicino e poi mi ritraggo. Che scavino gli altri la Grande Buca mentre io resto seduto a guardarli divertito,  assaporando il profumo della terra bagnata. Forse questo è un modo come un altro di arrivare all’essenza. Ma ha senso chiedersi quanto le gocce di pioggia che cadono sull’oceano penetrino sotto la superficie increspata prima di poter essere considerate “mare”?

domenica 6 gennaio 2013

Favoletta morale dell'epifania



Tratta da ilmondodialbolo (6 gennaio 2006)

C’era un volta (ma non è che ne sia poi così sicuro), c’era una volta, dicevo, un bambino molto povero ma anche molto cattivo. In realtà il bambino era davvero molto povero e non aveva di che nutrirsi e riscaldarsi. L’inverno era impietoso e la neve scendeva abbondante.
In realtà il bambino era anche molto cattivo. Quando trovava un uccellino con le alucce spezzate, si divertiva a torturarlo (va detto a onor del vero che era egli stesso a spezzargli le alucce per poi sentirsi legittimato a torturarlo). Quando vedeva un gattaccio lo attirava nelle sue trappole e, immobilizzatolo, si divertiva a fargli i nodi nella coda e nei baffi. Ma non era cattivo solo con gli animali. Aveva più volte bastonato il vecchio parroco del paese e tendeva agguati a tutti i bambini alto-borghesi per derubarli e andare a comprarsi la droga.
Un giorno seppe che una vecchierella nomata “Befana” soleva portare dolci ai bambini buoni e carbone a quelli cattivi.
Il bambino, che era sì povero e cattivo ma non era stupido, iniziò a bastonare il parroco sempre più forte, a mozzare baffi ai gatti, a derubare i bambini borghesi e intasare con sterco di vacca i comignoli delle case.
La vecchierella, vedendo tanto sperpero di cattiveria, decise di portargli non una, non due, ma un intero container di calze strapiene di carbone. L’accorto bambino, quando vide la befana, la legò, la imbavagliò e iniziò a torturarla, bastonandola con la sua stessa scopa e facendole ascoltare tutto il repertorio di Gigi D’Alessio. 
La befana, data tanta inutile malvagità, appena fu libera, fu costretta a portare per punizione al bambino povero ancora dell’altro carbone. Dopo 6 o 7 volte di questo andirivieni, esaurite le scorte di carbone, si suicidò.
Il bambino nel frattempo era diventato proprietario di una delle più imponenti riserve di carbone dell’intero globo e avviò un’attività alquanto redditizia.



Morale della favola:
  1. non è vero che i bambini poveri sono sempre buoni, come si legge in tutte le favole di ispirazione catto-comunista
  2. la befana non esiste, in quanto è già morta
  3. a volte la cattiveria paga. E bene.
  4. quando uno non ha niente da dire, è inutile che si ostini a scrivere