lunedì 24 dicembre 2012

Storiella di Natale



Gli abitanti del borgo di Bottarga Soprana non erano soliti festeggiare il Santo Natale. E non già in quanto anticlericali, atei o comunisti ma solo perché pigri e burberi (e magari un pelino tirchi). Nel mese di dicembre le strade acciottolate che faticosamente s’inerpiacavano verso la Chiesa di Santa Bernarda Martire, fiancheggiate dalle vecchie case grigie e malconce, non risplendevano di luci colorate e sulle porte di legno, rattristate dall’umidità e dagli anni, nessuna ghirlanda festosa addolciva l’animo dei viandanti. In quanto agli alberi, neanche a parlarne! Nessuno si prendeva la briga di “vestire” abeti o pini di palle lucenti, fiocchi o addobbi sgargianti. Inutile spreco di tempo… Persino il parroco, nella maestà decadente di Santa Bernarda, non si dava da fare più di tanto per rendere onore al nascente Bambin Gesù. In un cantuccio della navata orientale soleva “apparecchiare” un presepucolo povero e disadorno che a vederlo si stringeva il cuore: un San Giuseppe di terracotta alto due spanne veniva appoggiato sul nudo pavimento senza troppi complimenti a fianco di un Bambinello triste, anch’esso in terracotta, e ad una Vergine Maria marmorea, di dimensioni visibilmente più grandi, presa in prestito dalla una tomba del cimitero retrostante (Aristarco Bertellotti 1803-1898 rip), da quando la “titolare” in terracotta era andata in frantumi, cadendo dall’albero della cuccagna (del quale ornava la sommità) alla sagra della salamella, nel pieno di un torrido agosto.
Nell’altro versante del monte sorgeva il paesotto di Baruffa Primiera, “legato” a Bottarga Soprana da atavica rivalità campanilistica. Gli abitanti di Baruffa, forse per distinguersi dagli odiati vicini, solevano festeggiare il periodo natalizio con solennità e sfarzo. Le viuzze del paese risplendevano di addobbi e luci di ogni tipo, nella piazza del Municipio veniva decorato un abete bianco di dodici metri e le vecchine preparavano e offrivano a viandanti e forestieri dolci tipici (tra cui la famosa Mappazza di noci che fece la fortuna di tanti dentisti). Ma i baruffotti, col tempo, vollero strafare e iniziarono a festeggiare Natale due, tre e persino cinque volte l’anno! Ci fu anche chi, in campagna elettorale, promise che con lui a capo della giunta, si sarebbe festeggiato il Santo Natale il 25 di ogni mese!


Gli abitanti di Bottarga, sentendosi derisi, si risentirono assai; ne nacquero diverse dispute che, come spesso accade tra uomini avveduti, si risolsero quasi sempre a sassate e che resero necessario l’intervento del Pretore. Tuttavia, persosi tra cavilli legislativi, conflitti d’interesse, dubbi di competenza, lungaggini burocratiche, minacce e vendette trasversali…anch’egli gettò la spugna e fuggì in Messico. Quando tutto pareva volgere verso il caos più totale, la diplomazia locale riuscì ad imbastire una proposta di accordo: Baruffa Primiera non avrebbe potuto festeggiare più di due Natali per semestre ma doveva rinunciare alla celebrazione della Santa Pasqua che rimaneva esclusiva di Bottarga Soprana (che ne poteva gestire fino ad un massimo di due all’anno con l’opzione per la terza negli anni bisestili a fronte di adeguata copertura finanziaria). I baruffotti, tra l’altro, avrebbero dovuto anche rinunciare congiungersi carnalmente con le donne coniugate di Bottarga e a non ironizzare sulle virtù di Santa Bernarda. La questione era spinosa e la proposta di difficile attuazione, anche per i malumori delle donne di Bottarga. Poi però l’eruzione del vulcano rase al suolo i due paesi e ne uccise tutti gli abitanti, così la questione non fu più di primaria importanza…

Buon Natale a tutti!

giovedì 13 dicembre 2012

Favoletta



Tratta da ilmondodialbolo, 26 gennaio 2006


Una bimba triste mi ha chiesto di raccontarle una favola su una bimba triste; non mi ritengo all'altezza ma ci provo, anche per evadere un po' nel mondo della fantasia...
 
 C’era una volta una bella bambina triste che viveva in un castello cupo. In effetti la bambina non era sempre stata triste ma la era diventata da quando la malvagia strega Tubinga le aveva fatto il terribile sortilegio della paura. Tale incantesimo consisteva nel fatto che chiunque vedesse la bambina triste veniva immediatamente colto da un senso di panico irrefrenabile, che spesso esternava con urla e imbarazzanti peti. La bambina ben presto si trovò sola, dato che anche i familiari non volevano vederla ed erano fuggiti in Australia. La sventurata chiese alla strega Tubinga il perché di quell’accanimento contro di lei, creatura innocente che non aveva fatto mai del male ad alcuno. Sensata fu la di lei risposta: " Se fossi stata una strega buona avrei fatto sortilegi solo agli empi; ma, dato che Albolo mi ha definita malvagia, faccio un po’ i sortilegi a chi mi pare e vaff….!" 



La povera bambina triste cercò per anni qualcuno che la potesse aiutare, ma tutti, alla sua vista, si dileguavano. Alla fine incontrò una simpatica fatina che le disse: "L’unica persona che può salvarti è la strega Tubinga stessa ma nessuno ha avuto mai il coraggio di chiederle di tornare sui suoi passi." Detto questo, urlando di paura, sparì in una nuvola di metano. La bambina triste e speranzosa si incamminò verso il tenebroso bosco dei debiti, dove abitava la strega cattiva. Per mimetizzarsi nel buio della notte e cogliere di sorpresa la strega, si avvolse in un mantello scuro e procedette a tastoni tra gli alberi. Ad un certo punto incontrò un ferocissimo lupo che le disse: "Che bocca grande che hai…" ed ella, calma, di rimando: "Lupo, primo mi sa che hai sbagliato storia, secondo hai comunque invertito le parti, terzo sei daltonico perché il mio cappuccio è nero." "Non vi avevo riflettuto" disse il lupo "ma stai attenta perché quel cespuglio fetido che stai calpestando altro non è se non la testa della strega Tubinga." Quando la strega malvagia si risvegliò ella le chiese: "So che non hai mai cambiato il destino delle tue vittime, perché?" "Nessuno me lo ha mai chiesto…" rispose la vecchia e pronunciò le parole magiche per annientare il sortilegio della paura. "Ora non faccio più paura a nessuno!" squittì la bambina. "Ehm, no, cara, in compenso ti ho trasformata per errore in un topo muschiato e non so come guarirti da tale magia…" La bella topina piangeva a dirotto, quando la vecchia ebbe l’idea giusta: "Trasferirò l’incantesimo ad Albolo che è stronzo perché mi ha fatto fare la figura della vecchia rincoglionita e cattiva per giunta!" "Tanto non se ne accorgerà nessuno" convenne finalmente sorridente l’ex fanciulla triste. Come si diffuse la notizia della sua guarigione, tutti i giovani del villaggio accorsero per ammirare l’innocua ragazza e corteggiarla. Tornarono anche i familiari e gli amici dalle terre lontane e furono indetti 3 anni di festa. La fanciulla, che aveva imparato quanto è importante non abbandonare mai la speranza e la propria stima, si sposò con il suo principe azzurro e misero al mondo 12 paffuti bimbi. E così, come da copione, vissero tutti felici e contenti. Tranne uno. Squit!


lunedì 26 novembre 2012

Nel mondo di Albolo



tratta da ilmondodialbolo (splinder), mercoledì 01 marzo 20
 

L’altra notte un FOLLETTO mi chiedeva che cosa ci fosse nel mondo di Albolo. Io non sono abituato a dare confidenza agli aspirapolvere, però ho fatto un’eccezione e ci ho pensato su…
Bene, innanzitutto nel mondo di Albolo non ci sono pesci o, meglio, ci sono ma nessuno li pesca e soprattutto nessuno li cucina. Non ci sono gechi perché mi fanno schifo. La flora è rigogliosa ma non infestante. Nel mondo di Albolo non c’è un progresso fine a se stesso. In alcune strade c’è chi ancora si sposta con il carro a buoi e nessuno penserebbe di abbattere l’ameno e secolare Boschetto dei Debiti per costruirci un McDonald. Che comunque non ci sarebbe, perché nel mondo di Albolo i panini di plastica non esistono (fatta eccezione per quelli di plastica idrosolubile, ma solo per carnevale).
Nel mondo di Albolo non si fanno troppi progetti sul futuro e, quei pochi che si fanno, per fortuna non sono curati da ingegneri. Non ci sono ponti sugli stretti e non ha senso fare una linea ferroviaria ad alta velocità. Nel mondo di Albolo i treni sono tutti a bassa o scoraggiante velocità, però arrivano sempre in orario e sono affidabili.
Nel mondo di Albolo la prepotenza e l’astio sono banditi (e non nel senso che assaltano le diligenze). Chi alza la voce, soprattutto in treno la mattina tra le 6 e le 9, viene soppresso. Nel mondo di Albolo è stato brillantemente risolto il problema dell’immigrazione; infatti nessuno trova affascinante o vantaggioso entrare nel mondo di Albolo, dato che è un mondo senza ricchezza eccessiva. Del resto nel mondo di Albolo nessuno è interessato ad averla; per fare alcuni esempi, nessuno si preoccupa di comprare una TV al plasma da 13 milioni di pollici e qualche anulare, nessuno si rincoglionisce davanti alla play station per ore e nessuno è così stolto da innamorarsi di una Mercedes.
Nel mondo di Albolo c’è il pane che non fa ingrassare, c’è il gelato che fa bene all’ipertensione, il pandoro che cura il diabete, la panna che purifica l’organismo... C’è – è vero - la pellagra ma è l’unica malattia di un certo rilievo e ha un nome buffo.
Nel mondo di Albolo c’è il mare ed è immenso e commovente al tramonto e nel mondo di Albolo nessuno si sognerebbe di interrare i golfi, dragare i fondali, violentare la natura per fare spazio a montagne di container senza poesia.
Ma nel mondo di Albolo chi sbaglia ha sempre un’occasione di riscatto e chi non si redime non viene sottoposto a pene da girone dantesco; semplicemente non esiste più ed è come se non fosse mai esistito. E’uno dei pochi vantaggi di avere un mondo di fantasia.


mercoledì 31 ottobre 2012

La Madonna del Buonviaggio



Non è infrequente che alle prime luci del mattino sul dosso del Buonviaggio si adagi una lingua di nebbia che ingloba il campanile e le case circostanti in un’atmosfera di irrealtà che scompare allo sciogliersi dei primi raggi solari. Che poi di vera nebbia non si tratta; è più una nube, un addensamento di umidità che risale dal canale e dai boschi circostanti e si affloscia pesante e appiccicoso sul culmine del passo come una marmellata di nuvole.
E fu questa stessa nebbia che un mattino di ottobre di quel lontano 1337 accompagnò l’apparizione della Madonna. All’epoca quella che sarà la Statale 330 non era che un piccolo sentiero che veniva percorso spesso a piedi o con i muli e la sommità del passo era luogo di riposo dopo la ripida salita per i viandanti e i pellegrini diretti in Lunigiana o nella valle del Vara e di sollievo per quelli di là provenienti; a loro a questo punto si spalancava pian piano la vista del mare e di quel golfo profondo che da sempre fu rifugio sicuro per chi andava per mare e luogo di ristoro per i viaggiatori tutti. Non per niente quella era Hospitia e poi sarà Spetia, Spedia e via dicendo, se vogliamo avallare questa tesi. E poi c’era appunto il passo del Buonviaggio (che così non si chiamava ancora), con la sua sorgiva di acqua fresca, i suoi prati, i boschi di pini e castagni e quella nebbia mattutina da staccare a morsi. E  in quella “nebbia di latte”, sprofondata in un’oscurità ancora imperante, apparve una mattina la Madonna, palesandosi agli occhi increduli di un pastorello poco più che ventenne di nome Gervaso, conosciuto dai più con l’appellativo “Gaina”, di certo non a mo’ di complimento.
La Santa Vergine si manifestò in un’immagine luminosa e diafana, in prossimità di una grossa roccia posta poco sopra il sentiero. Con voce dolcissima e quasi impercettibile sussurrò al pastorello: “Non confidare a nessuno questo nostro incontro. Io non dovevo apparire qui. Ma con questa nebbia mi sono confusa…” Gaìna restò immobile, ancora a bocca aperta, mentre la Sacra Immagine si confondeva per spegnersi nella nebbia del mattino. Rimase lì ancora un poco fino a quando non fu richiamato dalle imprecazioni del padre che lo cercava.
Ovviamente se invece di “Gaina” fosse stato conosciuto con l’appellativi di “Fido” la richiesta della Santa Vergine sarebbe stata esaudita ma veniva chiamato dai più “Gaina” e da uno chiamato “Gaina” cosa volete aspettarvi? E la notizia dell’apparizione giunse rapida nei vicini paesi e persino nel borgo sul Poggio. Dal primo giorno fu subito un grande accorrere di persone: giovani, vecchi, bambini e soprattutto donne, tutti a toccare la roccia dove era fulgidamente apparsa la  Vergine Maria. E presto si diffusero anche i primi miracoli [...]    
Fu presto eretta in loco anche un’edicola, ma non quella odierna che vende giornaletti zozzi, ma un’edicola votiva con raffigurata l’immagine della Santissima, così come sommariamente descritta dal Gaina. Fu per un periodo un accorrere di donne, di devoti, di curiosi; tutti a chiedere una grazia, recitare una preghiera, lasciare un fiore. Una vera devozione nata dal popolo, ricca di entusiasmo, di partecipazione.
Dopo poco però le cronache del tempo iniziano ad essere più vaghe e si dimenticano presto dell’accaduto. Dai pochi frammenti pervenutici apprendiamo che il “raffreddamento” improvviso di tanta devozione non sia da attribuirsi all’intervento delle gerarchie ecclesiastiche ma forse ad un clamoroso passo indietro del Gaina stesso. Secondo taluni vi sarebbero state altre apparizioni mistiche; in particolare si sarebbe “scomodato” dapprima l’Arcangelo Gabriele per ammonire il giovinotto e quindi, data la sua reticenza, San Giuseppe in persona per assestargli un solenne calcione nel di dietro. Sarebbe seguita una “spontanea” ritrattazione del giovine. Ma altri, più laicamente, sembrano non dar troppo peso a queste “epifanie” preferendo di gran lunga soffermarsi a riflettere sulle peculiarità della prima colazione della famiglia del Gaina, sulla cui tavola al cantar del gallo pane, olio e un buon fiasco di Vaggio non mancavano mai. Era il Vaggio un ottimo vino dalla gradazione alcolica piuttosto elevata che veniva prodotto in vicini territori al di là del fiume Magra, nei poderi dei conti Vaggia, appunto. Vino forte, si diceva, ma sulla cui bontà nessuno poteva eccepire. Da allora il Gaina venne identificato da tutti come colui al quale molto era gradito il buon vino Vaggio, tanto da essere chiamato direttamente il “Buon Vaggio”, come fu presto appellato anche il luogo dell’ormai famosa apparizione. Da lì a Buon Viaggio e poi Buonviaggio, il passo è breve, nella storia degli storpiamenti linguistici popolari, tanto più in quanto luogo di transito obbligato per molti viandanti che andavano e venivano dal Golfo. Ma la devozione per la Santa Vergine sopravvisse al Buon Vaggio o Gaina che dir si voglia. Per i pellegrini in cammino quella rimase una tappa fondamentale per un’orazione e un poco di ristoro prima di riprendere il lento e travagliato cammino.  In luogo dell’edicola, alcuni decenni più tardi venne eretta una cappella, e poi nel XVI secolo una piccola chiesa che poi, sul finire dell’800 fu sostituita dall’attuale edificio, adesso piuttosto malconcio e “impreziosito” da un discutibile monumento dedicato alla Madonna dei Ciclisti. Non abbiamo comunque conferme che in questi luoghi ci sia stata un’apparizione della Vergine Maria, né nel 1337 né mai; anche se molti dei sopra menzionati ciclisti amatoriali, magari un po’ in su con il peso e l’età, al termine della tortuosa salita, giurano spesso di aver avvertito i suoi soavi richiami…


lunedì 3 settembre 2012

Montuolo

Una recentissima visita in lucchesia mi ha fatto tornare alla mente gli anni del lavoro (mal organizzato e mal retribuito) in azienda e i conseguenti viaggi, quotidiani e interminabili, su di un treno troppo sporco e perennemente in ritardo. In uno di questi viaggi (15 settembre 2006) mi accorsi dell'esistenza di quella folkloristica e anacronistica stazioncina. Vi ripropongo i miei pensieri perché lo stato d'animo è il medesimo...

Alla stazione di Montuolo il treno non ferma più. Scivola via con la sua disarmante pigrizia, strisciando sui rovi bagnati e invadenti in questo spettro di settembre. Eppure un tempo ci sarà pur stato qualcuno ad aspettare un convoglio e una voce da grammofono avrà pur scandito le altisonanti parole: "Montuolo, stazione di Montuolo!". Oggi no e seduto sulla panchina, davanti a vetri infranti e proprio sotto le lettere in rilievo che battezzano la località, c’è un bambino vagamente obeso che guarda i treni che non fermano. Io non riesco a trattenere un velato ghigno sotto i baffi.
"Lasciamo perdere il fatto che i baffi non li hai, comunque il ghigno beffardo te lo potevi anche risparmiare! Credi di poter passare di qua e ridere del nome del mio paese senza treni? Fatti un esame di coscienza: stai raccontando una cosa senza senso e di nessun interesse! A chi credi possa importare di leggere riguardo ad una stazione fantasma e un bambino (sorvolo sull’appellativo "obeso") che non ha niente da fare? Considera la tua pochezza: non sei in grado di costruire storie. In quello che racconti non c’è una trama, non succede nulla, proprio come nella tua vita reale. Avresti potuto perlomeno narrare della tragica fine di mia nonna, in concomitanza del primo treno che non si fermò, o dei nubifragi dello scorso autunno…le disgrazie sono molto premiate dagli ascolti! E invece niente, ti stai rigirando attorno a un grappolo di parole inutili, senza scampo. Sei patetico."
Bambino smodatamente obeso, credo di aver capito perché a Montuolo non fermano più treni; se tutti gli abitanti di queste quattro case sono rompicoglioni come te, vedrai che tra poco non fermeranno più nemmeno gli autobus! E, così pensando, mi sono grattato il naso.

giovedì 2 agosto 2012

Vent'anni


Chi non ha mai avuto vent’anni? Approssimativamente tutti quelli che non ne hanno più di diciannove, direi. Comunque tutti gli altri si ricorderanno di quell’età fantastica, dell’entusiasmo, della voglia di vivere, degli amori assoluti sbocciati in una spiaggia brulicante o nell’oscurità di una discoteca e magari già esauriti il giorno seguente. E, siccome il livello degli ormoni era generalmente superiore a quello dei guadagni, bisognava accontentarsi, quale alcova “nuziale”, della propria sgangherata auto (nel migliore dei casi) o di quella dei genitori (nella maggioranza dei casi) o del motorino (per gli sfigati, i funamboli o gli amanti del complicato).
Dopo aver tanto penato per un sospirato segno di assenso, il problema a questo punto era la scelta del “locus copulationis”, anche perché la “principessa” (che magari te la dava la prima sera senza neanche sapere chi eri) non poteva certo essere “sbattuta” a lato di una strada come una qualsiasi prostituta. Allora il problema era il seguente: cercare un posto non troppo lontano (non si sa mai ci ripensasse), non troppo trafficato, non troppo isolato, non troppo squallido. E non era un problema da poco. Non infrequenti erano infatti i casi di “coitus interruptus” dovuti al sopraggiungere di auto moleste di buontemponi non-trombanti o di forze dell’ordine controllanti, oppure alla comparsa di un faccione guardone spiccicato al parabrezza appannato. Trovare posti sperduti e inaccessibili anche a buontemponi e guardoni non sempre risultava una scelta vincente: boscaglie vergini e impenetrabili tipicamente generavano scompensi e paure nella tenera mente della fanciulla. E altrettanto tipicamente al centoventiduesimo “cosa è stato questo rumore?” risultava quantomeno difficile anche per un cultore della fisica permanere nello stato di eccitazione rettilinea uniforme, in pieno accordo con il primo principio della dinamica. I luoghi generalmente più tranquilli erano spesso le discariche abusive; per carità, il genere può piacere o non piacere (io ad esempio le trovavo molto naif) ma non si può negare che tra frigoriferi e lavatrici rotte l’automobile “flinstoniana” si trovava a suo perfetto agio. Altri luoghi da non sottovalutare erano quelle piazzole nelle quali pareva ci si desse appuntamento con una quindicina di altre utilitarie e ci si disponeva fianco a fianco in una preciso incastro geometrico; lì ti sentivi al sicuro, c’era tanta gente che condivideva con te paure ed emozioni e, si sa, l’unione fa la forza. Ma c’era sempre quella vocina: “ma dove mi hai portato, al drive-in?”

Fu allora che mi venne quell’idea: creare in luogo tranquillo, panoramico, collinare una sorta di ritrovo “copulandi causa”. Ingresso a gettone, si apre la sbarra, si ritira un simpatico copri-targa, si sceglie una piazzola libera, tutta cinta da profumate piante di lauro, dotata di contenitore per la raccolta dei rifiuti organici e non, con la vista che spazia sulla notte stellata per perdersi fino al mare. Poi distributori automatici di bevande, di panna spray, di gadget a tema, di prodotti smacchianti per i sedili dell’auto di papà. Il tutto controllato dalla presenza discreta di un fidato custode eunuco: non pericoli, non sporcizia, non squallore. Al termine dei tuoi 3 minuti di gloria, ti fumavi la tua sigaretta, appallottolavi e riponevi nell’apposito contenitore l’ammasso di fazzolettini profumati con essenza di mentolo, ti dirigevi verso l’uscita, riponevi il copri targa nelle feritoie a tale scopo deputate, si alzava la sbarra e via, sfrecciavi felice e sereno verso la di lei dimora. Giunto ivi l’accompagnavi galantemente al portone giurandole eterno amore e poi ripartivi verso casa tua domandandoti senza grande interesse se il suo nome fosse Giulia o Greta.


Si attendono finanziamenti e sponsorizzazioni per il progetto

lunedì 2 luglio 2012

Canoni estetici in Albolandia

Parmi saggio, in questo periodo di calura che riporta alla luce centimetri quadrati di pelle umana nascosti sotto coltri pesanti per il resto della stagione, riproporre le mie considetrazioni estetiche apparse nel gennaio 2009 su Splinder, affinché tutti possiate trarne un qualche insegnamento. O anche no.


Nel felice e felicemente antidemocratico Stato di Albolandia, celebre per i gusti estetici sopraffini dei suoi abitanti, si ama “dividere” le donne in due categorie: quelle ALTE (superiori ai 165 cm) e quelle PIACENTI (inferiori o uguali a 165 cm).
E’ altresì cosa veritiera che si ama pure dividere le donne in altre due categorie: quelle MAGRE e quelle GENEROSE.
A veder bene si potrebbe anche verificare che è consuetudine dividere le donne in ulteriori due categorie: le GIOVANI (inferiori ai 25 anni) e le VEGLIARDE (dal compimento del 25° anno), ma per ora ignoreremo questa ulteriore distinzione.
Ovviamente, come in ogni stato che si rispetti ma anche no, ogni anno viene tenuto un concorso di bellezza, aperto a tutte le donne in doppia cifra (10-99 anni), divise per categorie e giudicate da apposita Giuria di esperti, presieduta dal Sovrano stesso. La manifestazione si svolge a metà agosto, in uno stabilimento balneare di proprietà dello Stato e quindi del Sovrano, giacché ogni cosa è dello Stato e ogni cosa (e persona) dello Stato è, ovviamente, proprietà del Sovrano.
Nella Giuria non alberga nessun preconcetto e nessuna forma di discriminazione, tanto è vero che qualunque delle iscritte può, in teoria, ambire alla vittoria del celeberrimo Tubero di Rame, senza discriminazione di razza (cittadine o campagnole), colore (dei capelli), età e appartenenza politica (che comunque appartiene al Sovrano). Non sfuggirà ai più, d’altro canto, che se tutte possono ambire alla vittoria finale, le favorite sono senz’altro da ricercarsi nell’intersezione delle prime categorie citate, cioè dalle ragazze che possono vantare la contemporanea appartenenza alla categoria PIACENTE e GENEROSA.
Ovviamente per sfuggire a qualsiasi forma di arbitrarietà e fornire uno strumento obiettivo che dia garanzia di imparzialità, si è messa a punto una metodologia che si rifà alla teoria del “calco dentale”. Essa teoria si basa sull’istinto alla morsicazione che la visione di un bel corpo femminile tondeggiante può provocare. Per maggiore imparzialità, ogni anno viene estratto a sorte un popolano tra i possessori della Social Card, ed esso viene nominato “Morsicatore Ufficiale”, con enorme sua gioia. Purtroppo sfortuna vuole che, per la troppa emozione, questi morsicatori popolani la notte precedente alla gara si sentano immancabilmente male o si smaterializzino, obbligando il povero Sovrano alla loro sostituzione.
Per farla breve, più una ragazza è bella secondo i canoni albolandesi, più morsi riceverà nel gluteo destro. Alla fine sarà compito dell’attenta giuria provvedere al meticoloso conteggio delle impronte dentali impresse sulla viva ciccia. Va da sé che la vincitrice sarà la ragazza che avrà ricevuto il maggiore numero e profondità di impronte. E va da sé, altresì, che le ragazze troppo magre non potranno mai ambire alla vittoria finale e a cingere la propria testa con il Tubero di Rame.



Questo post vorrebbe essere un tributo alla lotta contro la magrezza

giovedì 10 maggio 2012

Il sordo


Consapevole della veridicità del detto “non c’è peggior sordo di chi non ci sente veramente una cippa” e afflitto dal dolore provocato da ciò che le sue orecchie ogni giorno erano costrette a percepire, il sig. Pancrazio decise di allenarsi a non sentire più. Non che si trovasse a vivere situazioni particolari o - per così dire - estreme, ma si era reso conto che anche nella banalità della vita quotidiana era costretto ad ascoltare un’innumerevole quantità di suoni che per drammaticità, ferocia o semplicemente stupidità ferivano nell’intimo il suo animo. “Ma c’è qualcuno o qualcosa che mi obbligano a sentire tutto ciò?” - si chiese un bel giorno e così…non sentì più. Certo, non riuscì nel suo intento in poche ore, né giorni, né settimane; ci volle qualche anno ma infine fu certo di non sentire più. E, a forza di non sentire, perse anche l’uso della parola. Ma tutto ciò sembrò non bastargli; infatti notava che, allorquando qualche molesto figuro cercava di comunicargli qualcosa, non era sufficiente non udire giacché le parole erano chiare lette sul labiale, quando non addirittura su fogli di carta. Così si allenò a non vedere, ma non a non vedere completamente, solo a non mettere a fuoco le immagini più vicine; una specie di presbiopia autoindotta. Così nei sempre più sporadici “approcci”, mentre l’interlocutore parlava senza ottenere risposta alcuna, in buon sig. Pancrazio fissava un punto non meglio definito perso all’orizzonte e intanto pensava bellamente ai casi suoi.
Ottenne quindi di vivere in una condizione ovattata e sublime nella quale nessuno stridio poteva trafiggerlo e le parole del mondo erano brezza che scorreva leggera e tiepida sulla sua pelle.

Una sera, mentre scendeva dalla scalinata che dall’oratorio di San Eustachio porta alla Piazza del Padiglione, scorse  una moltitudine di gente che pareva intenta ad ascoltare l’esibizione di un’orchestra composta da una ventina di individui che, stretti nei loro abiti da cerimonia, si davano un gran da fare a far vibrare archi, ottoni, timpani…
Si avvicinò per non vedere e si concentrò verso l’estremità sud della piazza, laddove un edificio di vaga ispirazione barocca impediva allo sguardo di perdersi nel dedalo di viuzze che conducevano alla marina. Sulla facciata dell’edificio campeggiava uno stendardo rossastro che pubblicizzava l’esibizione della famosa Orchestra Prepuzio che avrebbe eseguito, tra gli altri, il Gavarone Innamorato, opera prima del compianto maestro Attilio Clistere.
Che coincidenza! QQQQqqgggAAAAAAAAAAAAAAAQuello era il pezzo del Clistere che più l’aveva appassionato in gioventù, che lo faceva tremare d’amore e commuovere come un infante! Si mise ad annusare l’aria e tra i profumi della sera, in quella primavera che stava prepotentemente sbocciando, gli parve d’improvviso di percepire distinto e forte l’odore capriccioso di un si bemolle! Si disperò.
Istintivamente si chiese se ne fosse valsa la pena, se la cura non gli fosse stata più gravosa della malattia, se avrebbe potuto fare qualcosa per tornare indietro. Questo si chiese o – meglio – avrebbe voluto fare. Ma non poteva parlare e, del resto, comunque non si sarebbe sentito. 
Così si allontanò cupo e barcollante in direzione di Porta del Meretricio.


martedì 13 marzo 2012

L'arca

"Ci son due coccodrilli ed un orangotango..." Percepire i versi di questa stupida canzoncina, da una vocina stridula di bambina stradale, mi ha fatto rimembrare un'altrettanto stupida storiella che avevo postato nell'ottobre 2006 su "Il mondo di Albolo". Ve ne darò contezza anche se non richiesto, tanto non ho nulla di meglio da fare...

C’erano proprio tutti. Non è vero, come invece sostiene la sciocca canzoncina, che mancavano i due leocorni. C’erano anche quelli, perlomeno all’inizio. Dopo 35 giorni di pioggia ininterrotta, con venti che continuavano a soffiare all’impazzata da tutte le direzioni e onde più alte di una sequoia obesa…iniziarono a serpeggiare i primi malumori e un po’ di sfiducia. E naturalmente un pizzico di nervosismo. Il corvo e il gufo sostenevano che non ci fosse possibilità di salvezza. Il coccodrillo piangeva. Alcuni erano soggetti a crisi di identità. Il cane, impaurito, spiccava balzi felini ad ogni sussulto della barca e il gatto lo guardava in cagnesco. I viveri iniziarono a scarseggiare (l'acqua no). Tutta l’imbarcazione era un perpetuo lamento e grida di disperazione soffocavano l’ululato del vento. Noè fissava i conigli con espressione interessata ma il Signore gli ricordò che il suo compito era salvare gli animali, non di farli oggetto del proprio estro culinario e, per essere più convincente, gli incenerì i baffi con una saetta. I conigli e l’ENPA resero grazie a Dio, Noè finalmente si rasò. La situazione divenne drammatica e fu riunita tutta la comunità per deliberare sul da farsi.
Noè fece la sua proposta: “Sacrifichiamo i conigli: sono tanti e gustosi…” Poi si ricordò dei baffi e si zittì. Qualcuno propose il leone ma questo non si mostrò per nulla collaborativo. L’ape fu scartata perché produceva il miele, la pecora dava la lana, la gallina faceva le uova, la mucca il latte. “E Noè cosa fa?” domandò provocatoria la tigre… “Io faccio…il caffè!”, improvvisò Noè, suscitando unanimi consensi. Il canguro prese la palla al balzo e azzardò: “Gli unici che non partecipano a questa riunione sono i leocorni (guardate come sono intenti ad amoreggiare, mentre qui si discute il futuro del creato!). Tra l’altro qualcuno sa per caso dirmi a cosa servono i leocorni?” Il silenzio fu totale e la tavola imbandita. “Ma se qualcuno ci contestasse l’arbitrarietà di questa decisione?” fece la lepre titubante, “Diremo che i leocorni non sono mai saliti su questa barca…”, osservò lo sciacallo. Dopodiché si udì solo un prolungato e vigoroso lavorio di mandibole.


giovedì 23 febbraio 2012

Il "Vaticano"


Erano gli ultimi anni del secolo XIX o forse i primissimi del successivo, non saprei dire con precisione. Erano tempi nei quali la parola “abbondanza” era completamente sconosciuta e anche riuscire a dare un tetto alla propria famiglia non era poi scontato. Così succedeva spesso che diversi nuclei familiari si unissero per condividere spese e scomodità di un appartamentino in affitto (che era già un successo riuscire a trovare). Fu così per Angelo, giovane falegname giunto nel Golfo dalla fredda Lombardia diversi anni prima. Raggiunto in Liguria dalla moglie Rosina, non appena la sua famiglia si accrebbe, ebbe la necessità impellente di trovare una dimora più ampia. E fu così che, insieme ad una famiglia di conoscenti, trovò un appartamento in un palazzo signorile che, per ragioni che ignoro totalmente, era allora conosciuto come “il Vaticano”. Ad Angelo non pareva neanche vero aver trovato una sistemazione così decorosa, a pochi passi dal centro storico e dal mare, con una spesa tutto sommato ragionevole! Ma da subito fu chiaro che qualcosa non andava…

Fin dalle prime notti, difatti, iniziarono ad udirsi strani rumori provenire dalle altre stanze: oscuri scricchiolii, sordi tonfi, colpi sulle pareti. Evidente che, all’inizio, ognuno tese ad incolpare l’altra famiglia per quegli ‘attentati’ al giusto riposo, tanto più che la reciproca conoscenza era ancora in fase embrionale e massiccia era la presenza di infanti e ragazzini. Ma i reciproci sospetti furono accantonati la sera che le due famiglie al completo si attardarono più del solito nella grande cucina. D’un tratto si udì un rumore forte dal locale vicino; gli uomini si precipitarono in quella direzione brandendo in mano manici di scopa. Quadri, suppellettili, persino alcuni indumenti…tutto ciò che era appeso alle pareti o appoggiato sul mobilio adesso giaceva sul freddo pavimento. L’appartamento fu passato al setaccio ma non si trovò alcun intruso, né segni di effrazione sulla porta. Non si trattò purtroppo di un avvenimento isolato: quasi ogni notte il sonno veniva disturbato da inquietanti fragori e al mattino, al risveglio,QQ lo spettacolo era quello di un campo di battaglia. Poi iniziarono anche i contatti fisici: non era infrequente che, durante il sonno, gli abitanti dell’appartamento si sentissero sfiorare da mani gelide. Urla di terrore squarciavano la notte, sottolineando l’evento. Ma chi erano? Che volevano da loro?
Iniziò a farsi strada una vecchia diceria secondo la quale in quell’appartamento, diversi anni prima, fossero stati ritrovati i corpi in avanzato stato di decomposizione di due fidanzati morti suicidi; le loro anime dannate sarebbero state ancora prigioniere di quelle mura. La notizia si diffuse; ne parlarono i giornali e se ne interessò la Questura. In più occasioni la casa fu messa sotto l’attenta sorveglianza di quattro guardie: due nell’androne del palazzo e due in prossimità della porta di ingresso. L’iniziativa non ebbe successo e pare che anche le guardie ne uscirono malconce. Una sera che Angelo tornò a casa più tardi del solito, trovando già tutto sottosopra, disse alla moglie, esasperato: “Se sono vivi si facciano vedere; se sono morti vadano all’inferno!” Si sentì arrivare uno schiaffo talmente forte sulla guancia sinistra che si rintanò sotto le coperte senza proferire più parola. La sera seguente, incurante della neve che cominciava a cadere sulla città, Angelo riunì la sua famiglia e la condusse a pernottare nel suo laboratorio artigianale dove, per riscaldarsi un poco, accese un focolare improvvisato, bruciando trucioli di legno. Il Questore disse a Rosina: “qui c’è qualcuno che si diverte a fare la “fisica”; benedetta donna fate di tutto per cambiare casa perché avete una famiglia con bambini piccoli che si spaventano!” E così fu fatto. Angelo si affrettò a trovare una nuova dimora e trasferì la sua famiglia in un appartamentino che si affacciava sulla frenetica piazza del mercato; una collocazione sicuramente meno comoda e signorile ma molto, molto più tranquilla...

Questa potrebbe essere una storiella come tante altre, senza neanche il dono di una particolare originalità, se non fosse che…è vera.
Una trentina di anni dopo questi avvenimenti, il marito di Giuseppina (figlia maggiore di Angelo), uomo non particolarmente incline a credere alle “fantasie” di moglie e suocera, incontra un compagno di scuola che aveva trovato occupazione in un’altra città; egli, in trasferta di lavoro nel Golfo, confessa all’amico di essere alloggiato in un appartamento dove non riesce a riposare perché accadono “cose strane”. L’appartamento è lo stesso indicato dalla moglie.
Ancora diversi anni dopo, siamo approssimativamente negli anni ’60, il marito della figlia minore di Giuseppina riferisce di un’esperienza simile vissuta recentemente da un suo collega, alloggiato in un appartamento (non meglio precisato) sito in uno stabile non lontano dall’Arsenale Militare. Neanche a dirlo quello stabile è appunto “il Vaticano”.



p.s. qualsiasi contributo inerente fatti simili accaduti in questa zona è gradito

martedì 7 febbraio 2012

Pio II

Stimolato da alcuni lettori di recente frequentazione, richiedenti notizie intorno alla tragedia del pulcino citata nell'ultimo post (presentazione), ripropongo il post apparso su splinder nel lontano gennaio 2007 che la descrive fedelmente. Astenersi da facili umorismi...


PIO II

Tragedia domestica in 3 atti tratta da un episodio di vita reale



ATTO PRIMO

Albolo, Sabronide, Coro

(Vano di ingresso di una dimora piccolo borghese. Un paio di brutti quadri alle pareti e un comò  in stile barocco. Un grosso specchio incastonato in una pesante cornice finto-oro. Un telefono di bakelite, a rotella. Una grossa pianta. Sulla parete destra la porta che conduce alla sala da pranzo. Dalla parte opposta si ode un vociare di bambini in avvicinamento. Silenzio, si inizia!)

ALBOLO
Vieni, o fida sorella: fugge ora appena il rilucente Elios e tempo non è di prolungare più oltre i garruli giuochi. Vieni meco, ti condurrò nel loco ove potrai nettare i tuoi fanciulli sudori e abbeverarti con salvifica acqua cristallina e scaricare le eventuali e naturali deiezioni, figlie di ciò di cui ti nutri. Non temere: nessuno aprirà la sacra porta se accortezza avrai di saggiamente rigirare la provvida chiavetta!

SABRONIDE
Teco vengo,  nobile fratello ch’ignora ch’io sappia a cosa serva un cesso! Ma pria accondiscendi a questo mio desio: oramai è già trascorso un quarto di una luna da quando donammo ospitalità al piccolo nostro amico, in occasione della festa del santissimo patrono. Egli ancor non è stato nomato sicché io temo possa andare incontro a folli crisi di identità! Aiutami, ti prego, ad egli un nome attribuire, sicché possa essere idoneamente appellato!

ALBOLO
O notte di tregenda che porta a scomodare gli stanchi miei neuroni per un sì gravoso onere! Non posso, credimi, assolvere a questo compito, ch’è troppo vasto per le mie esili forze!

SABRONIDE
Ti supplico fratello, compagno di mille avventure, che un tuo diniego farebbe me morire! Considera poscia il fatto che il tuo amato Geppo l’orsacchiotto trovasi attualmente nascosto in loco solo a me noto…

ALBOLO
Amata sorella, frutto di un malaugurato errore genitore, aiuterotti…cogitiamo insieme…Ma ecco! O sommo gaudio! Ho trovato! Dunque, come si nomava il primo nostro amico pennuto, perito di mal oscuro pochi dì or sono? PIO, mi pare. Orbene, codesto pennuto sarà PIO II!

SABRONIDE
O geniale fratello, che sempre sia lodata la papale e sconfinata tua fantasia! Or mi recherò alla toeletta più sollevata e gaia!

CORO
Tranquilla e placida pare la fanciulla,
Siccome infante che riposa in una culla,
Ma la vita osserva, come per dileggio,
che non v’è mai una vera fine al peggio!

ATTO SECONDO

Albolo, Madre Premurosa, Pio II, Coro

(Il palco girevole porta la scena nella sala da pranzo. Un tavolo massiccio, apparecchiato per la cena. Un antiquato televisore che trasmette immagini in bianco e nero. Sullo sfondo si intravedono le cucine. Sulla parete di sinistra la porta che conduce all’ingresso. Da essa entra Albolo.)

ALBOLO
Madre, madre!

MADRE PREMUROSA
Cosa diavolo hai combinato Albolo, che ne è di tua sorella?

ALBOLO
Madre, foste Voi a concepire una sorella sofferente di stipsi. Dove altro volete che ella sia se non a sforzare le sue giovani membra? Ma non di questo sono venuto a parlarvi: il nostro pulcino, l’ultimo sopravvissuto ai capricci di una natura matrigna e arrogante, ha oggi un nome! Si chiamerà Pio II!

MADRE PREMUROSA
Ah, bella idea! E allora vediamo di dare una bella pulita alle sue lussuose stanze, in quanto egli mangia come un pulcino ma defeca come tutto quanto il Vaticano e la corte d’Avignone!

ALBOLO
(accucciandosi verso una cesta ovattata nel quale è accovacciato un giallo pulcino)
Pulcino adorato, da oggi e per sempre tu vivrai tra queste mura con il nome di Pio II. Sarai lo svago dopo le mie fatiche, la gioia che sconfigge le mie tristezze, compagno fedele del mio farmi uomo!

PIO II
(senza essere da altri compreso)
O stranissimo genitore implume, assai grato ti sono per questo gesto di incommensurabile amore che hai dimostrato battezzandomi con il nome di un Pontefice del ‘400. Sebbene ritenga che il nome di un defunto mi potrebbe portare sfiga, ti voglio ripagare del bene che mi vuoi…e lo farò seguendoti sempre in ogni tuo movimento e stando a fianco a te nelle gioie e nelle difficoltà, finché morte non mi separi!

ALBOLO
Madre premurosa, il Vostro desio sarà per me dovere ma concedete che pria mi rechi a cambiar d’abito, in modo da non lordare codesti vestimenti immacolati…

MADRE PREMUROSA
Va pure figliuolo, ma rammenta di chiudere dietro di te la porta, in modo che PIO II non si disponga a seguirti!

CORO
Stai attento, dolce e candido Albolino
Ché assai piccolo e sgusciante è il pulcino.
Chiudi ogni porta, accosta le vetrate:
non commeter le tue solite stronzate!

(Albolo esce, seguito dal pulcino)

ATTO GROSSO
Albolo, Pio II, Coro
(Il palco gira e si ritorna nel vano di ingresso. Albolo chiude la porta, non avvedendosi che il pulcino è entrato)

PIO II
(senza essere da altri compreso)
Aspettami, o grande madre chioccia! Fa che io possa raggiungerti e camminare sotto la tua ombra, siccome il nostro istinto prevede!

CORO
(più forte)
Albolo, stai attento a quel che fai:
potresti non dimenticarlo mai!!!

ALBOLO
(tra sé, sbadigliando)
Mi dirigo nelle mie stanze…

CORO
(ancor più forte)
Albolo, sei più duro di una noce:
abbiamo ormai perduto anche la voce!

(Albolo compie un passo e…)

CORO
Nooooooo!!!


SPLASHHHH!!!


ALBOLO
(guardandosi il piede sporco di sangue)
Noooooo!!!

PIO II
(ridotto a sottiletta sanguinolenta)
O pesantissima mia chioccia, perché mi hai fatto questo? Non ho forse sempre tentato di allietare i tuoi giorni tristi? Non mi sono forse mostrato sempre affettuoso e avido di carezze? Non ti ho sempre seguito e guardato come un dio? E quante volte ho aspettato solo che quel dio mi guardasse e mi donasse un po’ di considerazione? E ora, come un dio maligno, mi dai un’orribile morte, tremenda punizione per un male che io non ho commesso. Vedi, ogni particella di vita, che volentieri avrei speso ancora e solamente per te, adesso si diparte da quel che resta del mio corpo; i miei occhi si socchiudono, mentre ancora ti guardano, come a chiedere perdono di una colpa che non riesco a comprendere ma che necessariamente vi è, perché, come ogni madre, non è possibile che tu sia cattivo…

ALBOLO
(piangendo)
Oh, lasso! Tu non sai quanto il peso del mio stesso passo adesso mi opprima e mi spenga ogni ardore di vita, tanto che anch’io vorrei morire teco! Ma non guardarmi con quegli occhi tristi, che ancora chiedono un ultimo atto di amore e di perdono. Tu non hai colpe. Solo io le ho. Solo io che ho tradito le speranze di chi mi amava e viveva per me. E a ciò non v’è rimedio. L’unica medicina agognata sarà l’oblio o una precocissima follia…

CORO
(mestamente, a voce bassa)
Il fato più crudele nella vita
È causa esser della dipartita
di chi ti ama. E per punizione.
Agli inferi cadrai in un girone
Nel quale sarai oppresso - è il contrappasso -
Da un pollo di tre metri…bello grasso.





lunedì 16 gennaio 2012

Mi (ri)presento

tratto dal profilo di albolo.splinder.com

Albolo nasce nell’ultimo quarto del secolo scorso ma non va in giro a vantarsene. Da piccolo, coerente con i suoi principi di libertà, rifiuta sdegnosamente la reclusione presso il locale asilo infantile. Da più volte prova di insofferenza e antipatia verso le persone che tendono a trattarlo come un bambino, procurando un sentimento di odio diffuso nei suoi confronti; tale situazione però non lo sconvolge ed egli, seguendo il detto biblico “molti nemici, molto onore”, reagisce con una scontrosità e un egocentrismo di cui va sensibilmente fiero. Succede però una disgrazia: egli schiaccia inavvertitamente con un piede il pulcino che gli era stato regalato in occasione di una recente festività cittadina, riducendolo a sottiletta sanguinolenta. Questo avvenimento lo segnerà molto e sarà alla base di ogni suo successivo disturbo psichico. Frequenta con entusiasmo ma senza troppa convinzione le scuole elementari, le medie e le superiori, cercando sempre di ottenere il minimo risultato accettabile con il minimo sforzo possibile. Ama la scuola perché sostanzialmente si diverte, soprattutto al liceo, dove costruisce un traforo nel muro che separa la sua aula da quella adiacente, straripante di ragazzine dal bell’aspetto. Lasciare la scuola è un trauma che lo porta a vivere gli anni universitari nel perenne stato confusionale di chi cerca di rincorrere qualcosa che oramai non può più raggiungere. E’ da qui che ha origine la sua passione non celata nei confronti delle ragazze giovani, molto giovani e pericolosamente giovani. La facoltà universitaria viene scelta con il sistema infallibile dell’estrazione a sorte e Albolo ne paga le conseguenze nelle numerose peripezie, spostamenti e lungaggini studentesche di questi anni. Sul nascere del nuovo millennio si dedica per ben due settimane alla vita militare, della quale non è entusiasta, preferendo di gran lunga la permanenza negli “esuberi” fino al definitivo congedo. Nel maggio del 2003 finalmente si laurea in S.d.M., palesando in tal modo il fallimento del sistema universitario italiano. La sua massima aspirazione è quella di lavorare nell’arsenale militare cittadino ma i tempi sono impietosi e si ritrova come per incanto in terra straniera, ad Altopascio (“Al-Topa-Show”), ridente cittadina toscana, che poi cosa abbia tanto da ridere ancora non è stato dai più compreso...

Dopo un rocambolesco trasloco aziendale seguito da fallimento, Albolo si dedica con profitto a percepire il contributo INPS per interi mesi otto. Nel luglio 2009 viene “obbligato” ad una nuova esperienza lavorativa che gli frutta qualche stipendio e l’antipatia di segretari comunali ed ex partigiani. A furor di popolo viene trasferito nella più vasta realtà di L., dove incontra nuovi affezionati colleghi, pronti ad assecondarlo nella speranza che il pacco venga rispedito presto al mittente. Ciò però non avviene e i colleghi devono farsene una ragione. Qualcuno dice che ogni tanto scriva minchiate su un blog ma ciò non corrisponde a verità. Per il resto si vedrà…



venerdì 6 gennaio 2012

Incipit

Profugo splinderiano senza troppe pretese, dopo aver salvato tutta la quinquennale blogstoria su albolo.iobloggo.com, per nulla convinto dalla piattaforma in questione, approdo or ora su blogspot con la speranza di incontrare qualcuno che finalmente riesca a farmi desistere da questo tentativo infruttuoso e mi convinca riguardo alla necessità di crescere.
Ma fino a che ciò non avverrà è mia ferma intenzione perseverare in questa “insanità” con saltuarie incursioni dal poco costrutto, attingendo alla mia evaporata fantasia e riproponendo, se il caso, pezzi del repertorio del fu “mondo di Albolo” che dovessi giudicare, di volta in volta, attuali e sconvenienti al punto giusto.

A chi mi ha seguito in questa trasmigrazione, a chi non lo ha fatto, a chi incontrerò su questi lidi, agli amici virtuosi e/o virtuali, a Wile E. Coyote (che mi ha messo gentilmente a disposizione la sua immagine), a Geppo (l’amico immaginario), a Cunimondo re dei Gepidi (senza un vero motivo), al cane Bolo, a Gigi la trottola e molti altri vada fin da ora il mio più sentito ringraziamento e la mia rassicurazione che somiglia tanto a una minaccia: Albolo veglia su di voi!

Andiamo a incominciar