mercoledì 18 dicembre 2013

Prima senza computer, ora senza connessione...ci vuole mooolta pazienza!
A presto amici :-)

lunedì 2 dicembre 2013

Le cose cambiano!



 In attesa di aggiornarvi sugli esiti dell'imminente trasloco...tanto per prendere tempo ripropongo una riflessione del 25 novembre 2008; e non perché sia particolarmente edificante ma in quanto concettualmente più impegnativa di un episodio di Peppa Pig

Come evolvono velocemente gli eventi!
Solo otto giorni fa, a quest’ora, ero sdraiato su una spiaggia (ligure, non tropicale) e stavo per immergermi tranquillamente in un mare finalmente limpido. E ieri ho visto automobili cariche di neve…
Solo poco più di un mese fa giocherellavo svogliatamente all’interno della mia fabbrichetta di plastica (di plastica non l’edificio; quello era di purissimo eternit). Ora passo il tempo su internet…
Quando ho iniziato le elementari, usava essere invitati alla “Festa del Remigino”, manifestazione ludico-teatrale dedicata a tutti i bambini del primo anno. Tra l’altro l’organizzatore era un mio parente, per cui non potevo esimermi dal parteciparvi. E ovviamente fui intervistato dalla TV locale di turno, con mio grande dispiacere. Vi propongo uno stralcio di quell’intervista, perché ritengo possa essere in qualche modo edificante.
Intervistatore (I): “Ciao, bel bambino, come ti chiami?”
Albolo (A): “Alberto”
I: “Ti piace andare a scuola?”
A: “No”
I: “Come si chiama la tua maestra?”
A: “Non lo so”
I: “Chi sono i tuoi amici?”
A: “… Andrea”
I: “E poi?”
A: “Basta”
I: “Ti piace la musica?”
A: “No”
I: “E allora cosa ci sei venuto a fare qui?”
A: “Niente”
Questa intervista andò comunque in onda su Tele Liguria Sud, in prima serata. All’epoca l’alternativa era una schermata a strisce multicolore con la scritta “Le trasmissioni riprenderanno domani alle ore 12”. In effetti che la schermata fosse multicolore era una mia ipotesi, dato che la TV era in bianco e nero.
Avevo risposto così perché ero burbero e timido, non cattivo. Avrei potuto rispondere che ero stato rapito dai miei nonni e coercizzato in quel luogo tenebroso (sempre che il verbo “coercizzare” esista) ma, d’altra parte, perché ferirli? Loro ci tenevano così tanto…

Adesso i miei nonni, poveretti,  non ci sono più, pace all’anima loro. Proprio ora che avrei tante cose da chiedere loro... Io invece ci sono ancora e non riesco a stare dietro al cambiamento delle cose. Cosicchè mi riscopro spesso lo stesso identico bambino di allora, in un'anima pelata.



domenica 24 novembre 2013

Rieccomi

Generalmente non entro mai con irruenza nei miei post. Generalmente sono presenza sfuggente che entra di soppiatto e gironzola mimetizzando la propria vita tra foglie secche, piante infestanti, cartacce abbandonate e qualche escremento canino.
Oggi però mi sento egocentrico e vi darò due ragguagli di fredda cronaca, cercando la vostra indulgenza per la mia prolungata assenza.
Sono appena uscito da un periodo stressante caratterizzato da un pesante concorso interno, iniziato male e finito peggio, dal guasto del mio fedele notebook, da una generale sfiducia nell'essere umano, nella società multietnica e nelle mie doti culinarie.
Adesso mi attende uno storico trasloco e tanta voglia di dormire. Ah, non ve lo avevo accennato? Credo di soffrire di narcolessia. Anni fa credevo fosse colpa dei cullanti viaggi in treno e di una sveglia troppo repentina. Poi delle letture noiose. Poi delle persone noiose. Ora mi convinco che sono io a non essere a posto ma prometto che cercherò di fare di tutto per uscirne fuori al più presto.
E siccome sono le 15.15 di domenica pomeriggio...vi auguro una buona notte. A presto.




giovedì 24 ottobre 2013

Piove

Non sono sparito ma impegni gravosi e improrogabili mi distraggono in maniera indicibile. O dicibile ma non lo dico. Ancora un mesetto di difficoltà e poi tornerò con l'assiduità di un tempo (quindi latiterò ancora).
Ma oggi piove per cui mi sento addosso questo post del 12 novembre 2008.


Qui, poco sopra il 44° parallelo, oggi piove. 
 
Cade la pioggia e non lava questi cornicioni neri, merlati di piccioni,
non lava la mia auto inespressiva, sporca di troppo datato sporco,
non lava questa gente così scura. 
 
Abbiamo provato, è vero, a mettere detersivi nelle nuvole e un po’ di acidità dentro ogni goccia.
Ne abbiamo ricavato solamente malumori ittici e di Illustri monumentati dalla Storia. 

Dovrei essere in grado, lo so bene, di fingermi al di sopra di quel manto che - forse - un Papa antecedente sta sciando. 

Ma piove e non si lava la mia auto rassegnata, i cornicioni dorici e cinerei, la gente scura e un’anima che resta refrattaria.


mercoledì 11 settembre 2013

Via della Stazione



La strada era conosciuta da tutti come “via della Stazione” e su ciò poteva pure aver influito la targa marmorea posta all’inizio della stessa, indicante per l’appunto quel nome. Via della Stazione era proprio una via strana, che la diceva lunga sull’indole e le peculiarità degli abitanti del luogo. Partiva in sordina dal fondo valle e si faceva largo, zigzagando, tra case squadrate e giardinetti recintati e, per i primi cinquecento metri, avresti potuto anche dire di passeggiare in una comune e graziosa stradicciola di periferia. Invece, passate la casa degli Armerini e quella, dirimpetto, pozzo-dotata, dei Graziotti (in lite da generazioni per il pozzo e diverse dicerie sulle rispettive donne di casa), prendeva slancio e impennava decisa, con pendenze talvolta imbarazzanti, dritta dritta , quasi in verticale alla volta del borgo superiore. E, quasi senza accennare curva o tornantello, a mano a mano perdeva la caratteristica di strada fino a prendere la configurazione di viottolo di campagna, mentre attraversava campi per lo più incolti, rallegrati da rare case coloniche trasandate e secolari e altre trasformate in fredde villette con piscina vuota annessa. Se via della Stazione avesse avuto un unico padre, egli non avrebbe certo goduto fama di uomo particolarmente fantasioso, sia in qualità di ingegnere che di responsabile della toponomastica comunale. Difatti non ignoro di far torto alla vostra intelligenza nell’esplicitarvi che la strada conduceva dal borgo abbarbicato sulla collina fino alla stazione ferroviaria che giaceva nella sottostante vallata.  Anzi, a ben vedere, conduceva alla ex stazione ferroviaria, giacché era stata dismessa da quasi un lustro e la nuova stazione, più al passo coi tempi, sorgeva quasi due chilometri più a valle ed era più accogliente, spaziosa e dotata addirittura di un piccolo bar riservato ai pensionati e di distributore automatico di preservativi (verosimilmente usati).

La vecchia stazione era rimasta, così, abbandonata e solitaria, coi marciapiedi invasi dalle erbacce, con i vetri delle finestre rotti, le pareti scrostate, i vecchi lampioni spenti e Michelìn Gigione, che la vide per la prima volta al principiare di quell’autunno, coi suoi occhi bui e venati, quella bocca squadrata e chiusa da pesanti catenacci, pensò che fosse sintesi ed emblema di ogni cosa che conducesse lacrime, di ogni pensiero triste ed ingombrante, di tutto ciò che facesse male al cuore, della malattia del mondo.
Segue elenco non esaustivo delle cose che facevano male al cuore secondo Michelìn Gigione: la morte, lo scorrere del tempo, l’estate quando sta per finire, i ricordi, la bellezza disarmante,  il confronto con la propria arida mediocrità, la coscienza della perdita, il sentire di non sentire, la noia, il colesterolo.
Così Michelìn Gigione ripensò alla propria famiglia: i genitori ormai anziani e rassegnati, nella buia casa di città, i suoi cinque fratelli sparsi qua e là per il mondo a rincorrere inutili sogni, il gatto Tobia, compagno inseparabile dei giorni della sua fanciullezza, ormai quasi immobile sul suo giaciglio e prossimo alla fine della sua settima vita…e improvvisamente capì che irrimediabilmente niente sarebbe più stato come prima. E guardando la vecchia stazione, solitaria e malinconica, pensò che solo quella sarebbe potuta essere la sua nuova casa, con quegli occhi tristi, lei che era simbolo ed emblema di tutto ciò che conduceva lacrime.
Con tali pesanti pensieri conficcati nella mente, si incamminò lungo la via della Stazione e, superata la casa pozzo-carente degli Armerini, tra il vociare confuso di  ancestrali litigi, iniziò ad arrancare alla volta del borgo superiore. Ben prima di metà salita aveva già scordato tutto e ne approfittò per evacuare.

sabato 24 agosto 2013

Deus Albi

Tratto da ilmondodialbolo, 08 giugno 2007


Io, quando ero liceale, ero un ragazzetto idiota. Solo molto più tardi si è verificato il malaugurato peggioramento. All’epoca, con somma modestia, amavo essere chiamato "il dio". Il mio stemma raffigurava la facciata di un tempio greco (stile dorico, per intendersi), con un’enorme saetta (stile saetta, per ri-intendersi) sovrapposta e la maestosa scritta "DEUS ALBI", sorgente dal punto in cui essa si conficcava. Su quanti banchi avrò inciso, nel corso dei 5 anni, questo bellerrimo stemma non lo ricordo davvero; ricordo solo che la mia prof di disegno e arte, invece di lodarmi, sentenziò acida: "Io te lo farei ripagare!". Arida, ecco cosa sei sig.ra T.! E noiosa pure. Arida e noiosa (cit.)!
In realtà io ero una personcina buona e semplice, coi capelli lungheggianti, una miopia alla quale non volevo arrendermi e tanta voglia di fare…poco. Mi dilettavo a comporre poesiucole scarsamente edificanti su compagni e professori, a scarabocchiare sull’inseparabile diario, a bucare i muri e ammirare estasiato le più belle (e meno belle) ragazze della scuola. E a divertirmi con i ragazzi della "curva", perpetuamente disposta sul fondo della classe. Essa "curva" comprendeva: il Dimpo (noto anche come il SAFFU e anche altrimenti), il ginnico Illeo, il malpancista Illori, il bucolico Ugo (all’epoca non ancora bucolico per la verità), l’impalato Rana, il Pompa (figlio di pompiere, non pensate male!), oltre naturalmente al succitato dio-io. Risentirete parlare di loro: ho intenzione di raccontarvi in seguito qualche simpatico aneddoto scolastico. Ma per ora basta così; al solo ricordo mi assale una nostalgia dolce-amara che mi toglie il respiro. La stessa che mi ha spinto a non accettare, per molti anni, la fine di quello splendido periodo, con folli rincorse e conseguenti amare disillusioni. 
E ringrazio la precoce deforestazione cranica per avermi fatto capire che adesso sono un'altra persona, magari un po’ più vuota ma più cosciente dei propri mezzi: una Clio di seconda mano e uno scooter Kymco con ormai troppi Km sulle ruote...




P.S. attualmente la Clio è stata sostituita da una comoda Fiat Sedici 4x4, for old men only

giovedì 1 agosto 2013

Quella non è una lucciola



“Quella non è una lucciola” disse con una certa dose di acutezza, scrutando il cielo non ancora totalmente buio, mentre attorno già i filari delle viti e i tronchi nodosi dei pochi ulivi iniziavano a confondersi nell’oscurità. “Quello dev’essere un aereo!”. Le lucciole ormai erano sparite quasi del tutto per quell’anno o, meglio, si erano già spente e non galleggiavano più con la loro stanca intermittenza tra le piante dei pomodori e le ampie foglie di basilico. Anche per quell’anno l’odoroso giugno si era accomiatato e come tutti gli anni lo aveva fatto troppo in fretta. Intanto dietro alla casa stava spuntando uno spicchio di luna. Ebbe l’istinto di alzarsi ma poi si rimise a sedere, inspirando profondamente la dolcezza mielosa e quasi solida dei fiori del gelsomino. Non era più in grado di fermarsi e pensare, non era più in grado di fermare l’istante, di bloccarlo anche solo per poco e assaporarlo. E non aveva neanche niente di meglio da proporre. Adesso cercava sempre un passato od un futuro in ogni presente e troppe buone scuse ed alibi assolutori per non mettersi in gioco.
“Fosse per me non saresti neanche nato” disse infine il suo interlocutore, interpretando i suoi pensieri. “Ma tuo padre e tua madre sono stati così ostinati…oppure ci fu qualche errore, non ricordo bene. Al tuo posto erano pronte per lo meno una decina di alternative.
Orazio, ad esempio, un discreto esemplare di razza caucasica, che si sarebbe distinto entro l’adolescenza in furtarelli, atti di bullismo e amenità varie; che si sarebbero evolute successivamente in rapina, rapina a mano armata, stupro di gruppo a mano armata e auto-stupro a mano in gruppo armato e qualcos’altro di simile. Alla tenera età di venticinque anni, avrebbe detenuto il ragguardevole risultato di aver totalizzato condanne per numero di anni superiore a quello dell’età di sua nonna Abelarda. Non un grande esempio in quanto a moralità ma almeno in qualcosa sarebbe riuscito ad emergere e primeggiare.
Oppure Jessica, fulgido esempio di femminilità prorompente e tondeggiante, che già a sedici anni si sarebbe distinta fra la cittadinanza per le sue morbide “melozze”, ostentate con un misto tra disinvoltura e compiacimento. In età adulta, facendo sapiente uso del proprio corpo, avrebbe saputo costruire la sua ricchezza. Tu, al massimo, con un sapiente uso del tuo corpo, potresti costruire la ricchezza di diversi chirurghi estetici!!!
Ma non solo esempi scarsamente edificanti ti voglio sottoporre. Eustachio, anima profondamente pia, sarebbe stato ordinato sacerdote all’età di diciannove anni. Una vita spesa ad aiutare il prossimo senza desiderare nulla in cambio. Prostitute, nomadi, senza-tetto…per tutti avrebbe avuto una parola di conforto e un pasto caldo. Un “cuore d’oro”, avrebbero detto. E uno dei suoi “protetti”, prendendo ciò alla lettera, un giorno lo avrebbe accoltellato per verificarne la veridicità. Che delusione alla vista del muscolo cardiaco! A Padre Eustachio avrebbero intitolato pure una piazza; te se ti impegni potresti ambire a farti intitolare un chiusino in ghisa della rete fognaria!!! Ahahah!”
“Ah, vedo che c’è spirito stasera nell’aria!”
“Beh, quello c’è sempre. Con la S maiuscola, però!”
“Già, ma ciò non elimina il problema”
“Vero, non lo elimina e d’altra parte come si fa a rimuovere il problema con uno che quasi confonde un aereo con una lucciola! Lo vedi dall’incedere. La lucciola galleggia a pochi centimetri dal suolo, procedendo probabilmente a caso, con repentini cambi di traiettoria, l’aereo sfreccia a decine di migliaia di chilometri da terra e procede diritto verso la sua meta. A quale dei due ti piacerebbe somigliare?”
“A me piace andare a caso, agire a caso, farmi trasportare dalle correnti e annusare i profumi che viaggiano col vento. Non va bene?”
“Bah, lascia perdere, ho da fare, ti saluto…”
“Ok, alla prossima. Ciao Dio”
“Ciao pirla!”


mercoledì 26 giugno 2013

Ortensie



Che belle le ortensie! Come mi piacevano le ortensie! Con quei loro fiori, riuniti in infiorescenze che paiono aprirsi a ombrello, come i fuochi d’artificio in una notte di festa! Nel vialetto che conduceva alla vecchia casa di mia nonna ve ne erano diverse piante ed erano straripanti e incontenibili in giugno con i loro enormi fiori rosa e quelle sfumature dal viola all’azzurro. Che belle che erano e sapevano di campagna e sapevano d’estate. Sapevano di quelle sere d’inizio estate, con le scuole appena terminate e un indefinibile senso di libertà e follia. Sapevano di quelle sere, quando io e mia sorella rimanevamo a dormire dai nonni con lo scopo dichiarato di “vedere le lucciole”. Lucciole in città non ve ne erano proprio, no no, neanche a cercarle con scrupolosità e attenzione. Da mia nonna invece c’erano e non vi immaginate nemmeno quante ed io e mia sorella andavamo là appositamente per quello. Ci facevamo portare in tarda mattinata, giusto in tempo per accampare la giusta pretesa di desinare nella baracca che mio nonno ci aveva costruito nel giardino. Il pomeriggio trascorreva tra giochi e qualche mia simpatica “scortesia” nei confronti dei vicini antipatici e impiccioni (simpatica per me, per loro molto meno). Poi la cena all’aperto e, mentre mio nonno si addormentava a petto nudo su una sedia, divorato dalle zanzare, per me, mia sorella e mia nonna giungeva l’ora delle lucciole. Armati di indicibile coraggio e di una piccola “arbanella” (piccolo contenitore in vetro dotato di chiusura, per i non spezzini) ci dirigevamo emozionati verso il “pianone”, un  appezzamento di terreno strutturato ad ampie piane adibite ad orto dai legittimi proprietari che – tengo a precisare - non eravamo noi. Percorrevamo la breve stradicciola che saliva verso la collina e, superate le ultime case, quando il buio si faceva profondo…ecco lo splendido scenario di quel mare sconfinato di lucciole! Era uno spettacolo emozionante e misterioso quello sfavillio intermittente e leggero e riempiva il cuore di un’emozione che adesso non so dire…
Siccome poi eravamo bambini - e quindi naturalmente cinici e cattivi - pretendevamo di avere anche noi un frammento di quella Bellezza Cosmica, per cui ne catturavamo quattro o cinque esemplari e li rinchiudevamo nella famosa e vitrea arbanella. Giunti a casa e, svegliati il nonno e le zanzare, ci preparavamo per la notte, trasferendo le lucciole in un bicchiere (coperto da un cartone forato) che tenevamo sul comodino. Era bello addormentarsi nel grande letto che sapeva di bucato, mentre mia nonna ci raccontava avvenimenti della sua infanzia e si sentiva in lontananza soltanto il rumore della ferrovia. 

La mattina ci svegliava il canto delle galline e mia nonna era già in cucina a preparare la colazione. Caffelatte servito in terrazza e la cerimonia di liberazione delle lucciole (quelle sopravvissute) che, perso il loro fascino notturno, erano fonte di una discreta delusione. Poi tutti nell’orto a bagnare i pomodori e preparare il “pastone” per le galline: pane raffermo ammorbidito in acqua mescolato con crusca, una pietanza che mi ha sempre attratto e purtroppo non mi è mai stato concesso di assaggiare ma in futuro chissà. 
Poi venivano a prenderci i nostri genitori per ricondurci alla legittima dimora e quella parentesi bucolica terminava con un po’ di malinconia ma la certezza di un nuovo appuntamento per la festa cittadina di agosto, quando tonanti e variopinti fuochi artificiali avrebbero abbracciato il cielo, proprio come enormi ortensie multicolori. Che belle le ortensie, come mi piacevano le ortensie! E sapevano d’estate e sapevano di magia e di molto altro ancora. Come mi piacevano le ortensie. Non come adesso che le osservo...e non sento niente.


venerdì 17 maggio 2013

I consigli del Prof. Morelli


Tratto da ilmondodialbolo 08 settembre 2010

Questo blog, come si può evincere anche dai recenti post, non ha mai nascosto di avere come unico vero fine la divulgazione di cultura e informazione scientifica. E lo ha fatto toccando gli argomenti più seri dell’attualità, senza avere timore di assumere anche posizioni scomode ed impopolari. Abbiamo ora il piacere di dare spazio ad una delle personalità più in vista del mondo scientifico italiano, un eminente luminare della medicina, sempre pronto a dispensare consigli e giudizi pur restando persona schiva e riservata che “non ama apparire” in televisione. Stiamo parlando del Professor Raffaele Morelli, medico, psichiatra e psicoterapeuta che dirige da molti anni la rivista Riza Psicosomatica e i suoi studi e il suo lavoro psicoterapeutico si sono orientati nel campo delle malattie psicosomatiche. Confidiamo questo sia solo il primo di una lunga serie di interventi ed approfondimenti, per i quali invitiamo già i lettori a inviarci quesiti ed a illustrarci i propri problemi.


Egregio prof. Morelli, la mia ragazza mi chiama “Pisellino”, come il figlio di Braccio di Ferro (almeno così lei sostiene). E’ un segno d’affetto o devo iniziare a preoccuparmi?
Inizi, inizi senz’altro.
Mi chiamo Alfonso, ho 67 anni e scrivo da Eboli. Nonostante sia felicemente sposato da più di 30 anni, quando vedo una ragazzina pienotta, con qualche centimetro quadrato di pelle scoperta, sento forte l’istinto di addentarla in un gluteo o nei fianchi. Ho paura di essere malato. Cosa mi consiglia di fare?
Ne parli col suo dentista.
Buonasera, sono un quarantacinquenne (di cui non allego foto per decenza) sposato per grazia ricevuta. Confesso di non aver mai tradito mia moglie, aiutato in questo dal fatto che nessuna mi vuole. Per fortuna ho un lavoro fisso che non credo di meritare né di esserne all’altezza, ottenuto grazie alle conoscenze influenti di mia moglie, che certamente avrà dovuto ripagare in natura anche perché dubito di soddisfarla sessualmente. Ma secondo lei ho qualche pregio? (Figurarsi se risponderà proprio a me)
L’autostima senz’altro. Continui così.
Mi chiamo Grazia, ho 38 anni e un marito adorabile. Io lo amo alla follia, solo che quando viene l’idraulico non riesco a non concedermi carnalmente. Per fortuna mi succede solo con gli idraulici e con pochi altri artigiani. Crede che sia malata? Ora la saluto perché devo andare a intasare gli scarichi del bagno.
Malata no. Solo un pelino troia.

martedì 30 aprile 2013

Potrei...

Potrei trovare la banale scusa che il mio notebook non collabora più da alcuni giorni. Potrei.
Ma la realtà è che non ho più niente da dire.
Domani chissà...

domenica 17 marzo 2013

Calào

L'incurabile mancanza di fantasia e la necessità di affogare i dispiaceri nella porchetta mi costringono a riproporre vecchi deliri. Me ne scuso confidando in un repentino cambio di stagione e nell'indulgenza pontificia. Tratto da ilmondodialbolo, 6 gennaio 2010.



Il sig. Bruno uscì di casa presto come al solito. Era una fredda mattina di gennaio e il cielo era così bianco che pareva latte. Mentre si incamminava a passo svelto per raggiungere il posto di lavoro, alzò gli occhi al cielo e vide, accovacciato su un grosso ramo di un platano scheletrico, un buffo esemplare di Buceros bicornis,detto anche Calào! Ciononostante, con una leggera alzata di spalle, continuò a dirigersi di buona lena verso la sua meta. Naturalmente, se fosse stato meno ignorante, avrebbe saputo che il Calào è un uccello tropicale dell’ordine dei Coraciformi, che ama popolare i cieli dell’Asia Meridionale e non le fredde lande lombarde.

Quando giunse a destinazione si rese conto di aver perso il posto di lavoro. Si accostò al grosso cancello in acciaio zincato e fece per suonare il campanello ma il campanello non c’era più. Al posto del corpulento edificio dove, fino al giorno precedente, aveva per anni meticolosamente riempito schedari, ora vi era un grande spiazzo deserto, con una grossa pozza fangosa al centro. In alto diversi esemplari di Calào, intrecciavano confuse traiettorie nell’aria di cristallo. Naturalmente se il sig. Bruno fosse stato più profondo, avrebbe senz’altro riflettuto sulla precarietà del lavoro al giorno d’oggi, invece di indirizzarsi deciso verso l’affollato Caffè della Piazza.

Dentro al bar, in un profumo inebriante di caffè e dolcetti ancora caldi, un Calào vestito da barista gli porse una spremuta d’arancia e una ciotola di grani di miglio. Attorno decine di uccelli con vistose protuberanze cornee sul capo, vociavano nei tipici vestimenti da avventori. Il sig. Bruno consumò e uscì nell’aria scricchiolante di gelo.
Se fosse stato un po’ più sobrio si sarebbe probabilmente reso conto di non essere abbastanza sobrio per essere abile a guidare un’autovettura. Così si schiantò contro al primo muro, sotto lo sguardo rassegnato di un folkloristico Calào Indiano.

martedì 19 febbraio 2013

Giragiò

tratto da ilmondodialbolo, 3 luglio 2008


"Oh che bello il gira-giò, oh che bello il gira-giò!" Così, bambino, solevo esprimere il mio gradimento all’emozionante ed ineffabile vista di una betoniera. Lo so, non capita a tutti i bambini di manifestare tanto entusiasmo per i prodigi della meccanica ma io, all’epoca, ero in pace con me stesso, per cui non mi vergognavo affatto di "accendermi" innanzi ad una locomotiva, ad un traghetto, ad un trattore agricolo. Ma, così dicendo, sembra che fossi sensibile esclusivamente al fascino dell’opera dell’uomo. Non è così, tutt’altro! Mi emozionavo per molte cose, allora; magari facevo di tutto per non darlo a vedere ma mi emozionavo! Per un’alba (le rare volte che è capitato), un prato fiorito e, soprattutto, per gli animali.
Così per me "chicchidrillo" era il rospo che spuntava tra la vegetazione, "cunga" erano i funghi che scorgevo in un bosco di montagna e "altre cose" erano altre cose, non è che posso stare tutta la sera a pensare come mi esprimevo quando conoscevo in tutto sei vocaboli!
Gli animali erano i miei migliori amici: accarezzavo le galline e i conigli di mio nonno e poi gatti e cani in quantità, anche se non stretti da vincoli "familiari". Ricordo che quando i miei mi hanno intimato di salutare chiunque incontrassi, dato che ero solito essere scontroso, io ho iniziato a salutare proprio gli animali ("Ciao cane", "Ciao gatto" dicevo incrociando ogni esemplare di quelle specie) ma ho continuato a perseverare nel mio sospetto verso il genere umano, indegno oggi come allora del mio saluto.

Almeno loro (gli animali, dico) non mi trattavano come un bambino. O come un idiota. Le persone sì. Avevo, allora, un trascurabile difetto di pronunzia per cui il mare "mosso" diventava sistematicamente un mare "moffo". Questo faceva – chissà poi perché - sbellicare gli astanti a tal punto che, con un passaparola mai visto prima , mi ritrovai a dover rispondere più volte al giorno alla domanda "Com’era il mare ieri?" (ed io: "moffo"). Dal momento, però, che io ero sì bambino ma non deficiente, un giorno mi stancai e, con somma delusione della zia di ennesimo grado di turno, risposi :"Pieno di onde". Evvaffanculo!


martedì 29 gennaio 2013

Kronemberg

In concomitanza con la Giornata Mondiale per i Diritti dei Pittori del Ruanda, del Burkina Faso e della Penisola Scandinava, che si celebra oggi, vorrei riproporre il mio tributo (apparso su ilmondodialbolo il 24 ottobre 2006) ad un artista ancor poco conosciuto ma non per questo meno "grande": Julius Kronemberg.

L'Inquietudine
J. Kronemberg (periodo ocra)


Sorpreso dal totale disinteresse col quale, all'epoca, i lettori salutarono il mio coraggioso tributo, tre giorni più tardi pubblicai una doverosa precisazione della quale desidero darvi contezza. Tutto ciò per esclusivo amore dell'arte e anche un po' per secchezza delle fauci.

Su Kronemberg (27 ottobre 2006)
Dal numero spropositato di commenti lasciati nel post precedente, arguisco non senza un certo disappunto che il mio pubblico non è interessato all’arte o, perlomeno, non all’artista Kronemberg in quanto tale. Ma forse (ed è quello che voglio sperare) non è per Kronemberg stesso, peraltro pittore dal talento indiscutibile, che storcete il naso, bensì per il suo "periodo ocra" in particolare. In effetti in confronto alle più note e commerciali opere del "periodo marrone scuro" e "grigio topo", quelle del "periodo ocra" risultano essere maggiormente ermetiche e difficilmente comprensibili, almeno ad una prima analisi. Ricordiamo tra l’altro che queste opere altro non sono se non sofferte espressioni dell’onirico. Infatti è risaputo che Kronemberg non faceva sogni a colori ma soltanto in nero ed ocra (però quando era desto pensava a colori, come tutti). Il "periodo ocra" rappresenta un momento molto tormentato per la vita dell’artista, caratterizzato da una profonda sfiducia nella giustizia umana e in una legislazione troppo fiscale e bigotta. Dopo il processo che lo vide condannare per violenza sessuale plurima e continuata e quello che lo vide imputato (e naturalmente condannato) per omicidio volontario, aggravato dai futili motivi, Kronemberg si rese amaramente conto che l’uomo è incapace di perdonare. Questa scoperta, unitamente alla privazione della libertà, lo porta a rifugiarsi nei mondi onirici di cui sopra, che rappresenta con precisione e gusto per il particolare.

Per ulteriori approfondimenti sulla vita e le opere di Kronemberg si consiglia il volume "Julius Kronemberg, da artista maledetto a carcerato modello", a cura di P. Baudo ed edito da Mondadori. 

E meditate, gente: la gioia che da il perdono è seconda solo a quella che da il tiramisù


giovedì 17 gennaio 2013

Superficialità



Del giorno che sono nato mi ricordo tutto alla perfezione, come fosse…un po’ di tempo fa o poco più. D’altra parte nella propria vita non si nasce tutti i giorni; al massimo due o tre in un’intera esistenza, per cui certe cose rimangono ben impresse nella mente. Rammento ad esempio che me ne stavo comodo al calduccio, quando mi ritrovai all’improvviso pigiato in un angusto pertugio ed ebbi il timore, per un attimo, di rimanervi per sempre; poi ad un tratto vidi la luce ed avvertii un senso di bruciore doloroso in gola e nel petto. Quindi fui afferrato da mani giganti e ricordo visi brutti e occhi bovini che mi scrutavano e mi parlavano come fossi deficiente, tanto che in un istante compresi la miseria umana. Fu allora che cominciai a piangere.

Poi mi misero in una specie di letto o gabbia, condividendo la sorte con un reggimento di altri esserini maldisposti e raggrinziti di cui ignoravo le generalità ed ai quali non diedi confidenza anche perché nel frattempo intuii l’esistenza dell’idea di fame ma non potendo provvedervi me ne feci una ragione e contemporaneamente percepii di essere dotato della capacità di ragionare (in sistema binario). Così iniziai a pensare. Da quel momento non ricordo più niente. 

Però deve essere stato un niente lungo se i miei ricordi successivi principiano sull’età dei tre anni circa, data cui attribuisco per logica il termine dell’esperienza del pensiero. Da quel momento fu tutto un gioco di equilibrismi per planare soave sulla superficie dell’onda perfetta. 

Non so cosa di preciso…ma qualcosa mi spaventò. Mi spaventò o mi angosciò. Oppure mi deluse. O entrambi i tre. Davvero qualcosa nei meccanismi della vita (o del suo contrario) deve avermi spaventato, perché fu da quel momento che decisi (o fui costretto) a muovermi con quella lucida superficialità che solo chi vive come la brezza marina che solletica la pelle in una notte estiva sa comprendere e apprezzare. 

Non so cosa di preciso…ma qualcosa mi suggerì che controproducente assai sarebbe stato affaticare la mente, sforzarla e spremerla per scavare la verità e raggiungere l’essenza cruda delle cose. Perché l’unico vero risultato sarebbe stato solo l’emergere di un grande dolore, senz’altri vantaggi. E allora meglio costruirsi un mondo poggiato su qualche piccola e deliziosa bugia, dalla quale liberare il volo dell’immaginazione. 

Per questo vi chiedo di non giudicarmi troppo male se sfioro la superficie delle cose ma non vi entro, se mi avvicino e poi mi ritraggo. Che scavino gli altri la Grande Buca mentre io resto seduto a guardarli divertito,  assaporando il profumo della terra bagnata. Forse questo è un modo come un altro di arrivare all’essenza. Ma ha senso chiedersi quanto le gocce di pioggia che cadono sull’oceano penetrino sotto la superficie increspata prima di poter essere considerate “mare”?

domenica 6 gennaio 2013

Favoletta morale dell'epifania



Tratta da ilmondodialbolo (6 gennaio 2006)

C’era un volta (ma non è che ne sia poi così sicuro), c’era una volta, dicevo, un bambino molto povero ma anche molto cattivo. In realtà il bambino era davvero molto povero e non aveva di che nutrirsi e riscaldarsi. L’inverno era impietoso e la neve scendeva abbondante.
In realtà il bambino era anche molto cattivo. Quando trovava un uccellino con le alucce spezzate, si divertiva a torturarlo (va detto a onor del vero che era egli stesso a spezzargli le alucce per poi sentirsi legittimato a torturarlo). Quando vedeva un gattaccio lo attirava nelle sue trappole e, immobilizzatolo, si divertiva a fargli i nodi nella coda e nei baffi. Ma non era cattivo solo con gli animali. Aveva più volte bastonato il vecchio parroco del paese e tendeva agguati a tutti i bambini alto-borghesi per derubarli e andare a comprarsi la droga.
Un giorno seppe che una vecchierella nomata “Befana” soleva portare dolci ai bambini buoni e carbone a quelli cattivi.
Il bambino, che era sì povero e cattivo ma non era stupido, iniziò a bastonare il parroco sempre più forte, a mozzare baffi ai gatti, a derubare i bambini borghesi e intasare con sterco di vacca i comignoli delle case.
La vecchierella, vedendo tanto sperpero di cattiveria, decise di portargli non una, non due, ma un intero container di calze strapiene di carbone. L’accorto bambino, quando vide la befana, la legò, la imbavagliò e iniziò a torturarla, bastonandola con la sua stessa scopa e facendole ascoltare tutto il repertorio di Gigi D’Alessio. 
La befana, data tanta inutile malvagità, appena fu libera, fu costretta a portare per punizione al bambino povero ancora dell’altro carbone. Dopo 6 o 7 volte di questo andirivieni, esaurite le scorte di carbone, si suicidò.
Il bambino nel frattempo era diventato proprietario di una delle più imponenti riserve di carbone dell’intero globo e avviò un’attività alquanto redditizia.



Morale della favola:
  1. non è vero che i bambini poveri sono sempre buoni, come si legge in tutte le favole di ispirazione catto-comunista
  2. la befana non esiste, in quanto è già morta
  3. a volte la cattiveria paga. E bene.
  4. quando uno non ha niente da dire, è inutile che si ostini a scrivere